Cento giorni di felicità
Editore: Einaudi
Collana: Einaudi. Stile libero big
Genere: Narrativa contemporanea
Pagine: 393 p.
Descrizione: Non a tutti è concesso di sapere in anticipo il giorno della propria morte. Lucio Battistini, quarantenne ex pallanuotista con moglie e due figli piccoli, invece lo conosce esattamente. Anzi, la data l’ha fissata proprio lui, quando ha ricevuto la visita di un ospite inatteso e indesiderato, un cancro al fegato che ha soprannominato, per sdrammatizzare, «l’amico Fritz». Cento giorni di vita prima del traguardo finale. Cento giorni per lasciare un bel ricordo ai propri figli, giocare con gli amici e, soprattutto, riconquistare il cuore della moglie, ferito da un tradimento inaspettato. Cento giorni per scoprire che la vita è buffa e ti sorprende sempre. Cento giorni nei quali Lucio decide di impegnarsi nella cosa piú difficile di tutte: essere felice. Perché, come scriveva Nicolas de Chamfort, «la piú perduta delle giornate è quella in cui non si è riso».
Recensione
Maryella B.
Questa è la storia di come ho vissuto gli ultimi cento giorni della mia permanenza sul pianeta Terra in compagnia dell’amico Fritz.
E di come, contro ogni previsione e ogni logica, siano stati i giorni piú felici della mia vita.
E di come, contro ogni previsione e ogni logica, siano stati i giorni piú felici della mia vita.
Credo di aver detto in più di un’occasione che non amo le storie che parlano di dolore, malattia o tragedie: provo un’avversione letterale per questo tipo di contenuti, una sorta di blocco che nasce dal fatto che sin da piccola ho inalato l’odore della malattia, ho sentito vivo il peso delle disgrazie sulle esistenze di tutti coloro che orbitavano attorno alle persone che stavano attraversando in prima persona il dramma di un incidente. Dolore e sofferenza li ho, dunque, respirati da sempre e l’idea di leggerli in un romanzo è l’ultimo dei miei bisogni, soprattutto quando noto che queste tematiche vengono “usate” per fare sensazionalismo, per captare con subdole scorciatoie l’attenzione e la benevolenza dei lettori. In una delle mie recensioni, a proposito dell’argomento, scrissi che mal sopportavo l’uso di determinati temi perché vi ravvisavo l’intento furbesco di ottenere un’intensa e rapida risposta emozionale, sfruttando il carattere, apparentemente, struggente della narrazione. L’autore lancia una sorta di esca per prendere all’amo la sensibilità del pubblico e la sofferenza viene sfruttata per cercare di rendere queste storie più intense e toccanti: in realtà, però, su di me, il tutto si traduce in una strategia controproducente che, visto il carattere spesso superficiale e poco credibile di quanto proposto, non mi porta quasi mai a creare alcun tipo di legame empatico coi personaggi.
Ho affrontato la storia di Lucio Battistini con pochissima voglia e ho temporeggiato parecchio prima di decidermi a leggerla: non fosse stato per la sfida di lettura non avrei mai preso in considerazione questo titolo. Credo che certi libri non facciano per me e, di sicuro, io non sono la lettrice che fa per certi libri. E, in effetti, l’esperienza non ha fatto altro che confermare la regola: non sono riuscita a farmi toccare dal dramma del protagonista, non ho sentito pathos o commozione, né struggimento. La mia è stata una lettura quasi abulica, priva di reazioni profonde e di quel coinvolgimento che il tema trattato avrebbe dovuto suscitare: ho trovato una buona dose di retorica e superficialità ad attraversare le pagine; ho avvertito, nell’intenzione di affrontare con ironia e leggerezza un tema tanto delicato, uno sviluppo che si spinge ai limiti della banalizzazione più estrema. Di certo la storia è avvolta da un’aura di romantico sentire: l’idea è ricca di suggestioni e, senza dubbio, non può lasciare indifferenti. Romantica è il voler cercare a ogni costo il perdono della donna amata. Romantico vivere in pieno gli amici e ritrovare dopo anni quelli che si pensava fossero perduti per sempre. Romantico il pensiero di lasciare qualcosa di sé ai propri figli. Romantica la trovata del viaggio finale. Romantici i richiami alle fiabe e all’infanzia. Romantica l’idea di un negozietto in cui si vendono Chiacchiere. Romantica l’intenzione di tenere un diario.
Vado alla mia scrivania, rintraccio in fondo al cassetto un vecchio quaderno a righe. In copertina c’è Dino Zoff che alza la coppa del mondo al cielo. Un disegno colorato fatto male, nemmeno una fotografia. L’ho ottenuto nel 1982, barattando un album di figurine dei calciatori quasi completo. Nel cambio ci ho perso, credo. Avevo nove anni. Non ho mai avuto il coraggio di usarlo […] Lo apro e numero le pagine a mano.
Da cento a zero. […]
Da cento a zero. […]
Sul quadernetto di Zoff, cancello la frase «farmi perdonare da Paola». Lo farò. Ma lo farò dopo. Prima c’è una cosa piú importante.
La cosa principale da fare nella mia situazione.
Scrivo:
Non arrendermi.
La cosa principale da fare nella mia situazione.
Scrivo:
Non arrendermi.
Sono tante le sollecitazioni che investono il lettore, a partire da quella domanda con cui esordisce la sinossi. Cosa faresti se mancassero cento giorni alla tua morte? Lucio Battistini, attore principale di questa tragi-commedia, nella quarta di copertina dà la propria risposta.
Cento giorni di vita prima del traguardo finale. Cento giorni per lasciare un bel ricordo ai propri figli, giocare con gli amici e, soprattutto, riconquistare il cuore della moglie, ferito da un tradimento inaspettato. Cento giorni per scoprire che la vita è buffa e ti sorprende sempre. Cento giorni nei quali Lucio decide di impegnarsi nella cosa piú difficile di tutte: essere felice.
Il protagonista, quasi quarantanni, moglie e due figli, una laurea all’Isef scopre di avere un tumore epatico in fase terminale: gli restano circa tre mesi prima che la qualità della sua vita crolli del tutto e così decide di vivere in pieno questo intervallo di tempo concessogli dall’amico Fritz, nome col quale ha ribattezzato il cancro che lo porterà alla morte. Con piglio leggero e ironico, la prosa di Brizzi realizza un viaggio che, purtroppo, in più di un’occasione sconfina nello stereotipo e si macchia di fastidiosa melensaggine, quest’ultima, soprattutto nel finale. La storia, però, scorre agevolmente e non si impantana, ha un carattere marcatamente cinematografico e penso che traslata in pellicola potrebbe avere un certo successo: è potente la fantasia di riuscire a cogliere ogni attimo, ogni occasione, di fare ciò che non si è mai fatto, di rimediare agli errori, di lasciare qualcosa di sé in un futuro che non si potrà mai vivere. Di certo ha un’energia prorompente la spinta alla riflessione innescata dall’esperienza di Lucio Battistini: quel “cosa faresti se mancassero cento giorni alla tua morte?” non può che determinare una serie di considerazioni sulla caducità della vita e sull’importanza di non dare nulla per scontato. Ma tutto ciò non è sufficiente, almeno per me, a risollevare le sorti del romanzo: manca un adeguato approfondimento e una caratterizzazione dei personaggi altrettanto potente. Penso tuttavia che la prosa di Fausto Brizzi sappia essere molto accattivante e l’impronta ironica che la contraddistingue possa essere meglio gestita se applicata a una storia con contenuti diversi: mi riservo, dunque, di sperimentare qualche altro libro dell’autore.